L’AI riscrive i rapporti di forza: il riassetto Apple, le fratture Microsoft-OpenAI, la strategia Trump dei chip | Weekly AI

Weekly AI è la nostra rassegna settimanale sulle notizie più rilevanti legate al mondo dell’intelligenza artificiale
L’AI riscrive i rapporti di forza: il riassetto Apple, le fratture Microsoft-OpenAI, la strategia Trump dei chip | Weekly AI

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Il Wall Street Journal sgancia la bombaSam Altman e Satya Nadella sarebbero ai ferri corti. La collaborazione simbolo dell’intelligenza artificiale mondiale, quella tra OpenAI e Microsoft, secondo diverse fonti starebbe mostrando segni di cedimento. I motivi? Divergenze sull’accesso alle risorse computazionali, sulla condivisione dei modelli e sulle tempistiche per il raggiungimento dell’AGI.

In tempi non sospetti Microsoft aveva già fatto intendere la volontà di ridurre la dipendenza dall’ex startup californiana, annunciando lo sviluppo della propria AI, chiamata “MAI. E dall’altra parte, OpenAI aveva già chiuso un nuovo round di finanziamenti record, guidato dal colosso giapponese SoftBank, che di fatto ha ridimensionato il ruolo di Microsoft come principale sostenitore di Altman & co.

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E finanziare un gigante come OpenAI di questi tempi deve essere tutt’altro che semplice, considerata l’incerta redditività e sperimentazioni sui tool che implicano perdite milionarie. Altman ha ad esempio ammesso che l’uso di formule di cortesia come “per favore” e “grazie” nei prompt di ChatGPT comporta un costo inimmaginabile in termini di energia e soldi, pur definendolo “denaro ben speso”.

Un nuovo tassello potrebbe rappresentare un ennesimo colpo di scena. Mentre Google è alle prese con l’antitrust americano, in un’indagine che potrebbe addirittura portarle via il dominio sul motore di ricerca Chrome, OpenAI si dice pronta a valutare un’eventuale acquisizione.

Si tratterebbe di una mossa epocale. Per ora, una semplice ipotesi ma mai dare mai.

Quasi a suggerire l’associazione, ChatGPT continua a “googleizzarsi”: l’ultima funzione lo trasforma in assistente per lo shopping.

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Occhi puntati anche su Apple, che nella sua apparente incertezza mantiene una rotta interessante. Mentre si avvicina la pubblicazione dei risultati fiscali del secondo trimestre (dopo le vendite deludenti degli ultimi iPhone) gli investitori chiedono rassicurazioni sulla strategia AI dell’azienda e sul suo posizionamento nella guerra dei dazi tra USA e Cina.

Apple risponde indirettamente: riorganizza la propria divisione AI e conferisce nuova centralità alla robotica. È un segnale chiaro: se l’azienda è rimasta (in parte volutamente) indietro mentre si faceva la rivoluzione del software, potrebbe essere intenzionata a farsi trovare in prima fila alla nuova rivoluzione dell’hardware. E il riassetto potrebbe dare finalmente la spinta decisiva alla nuova Siri.

E mentre Apple valuta di spostare parte della produzione degli iPhone in India, cercando di sfuggire al fuoco incrociato tra Trump e Pechino, Sundar Pichai (CEO di Alphabet) tende una mano a Tim Cook, auspicando che l’AI di Google Gemini possa essere integrata come opzione nativa su iPhone e iPad entro l’anno.

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Mentre le aziende si ri-organizzano, il mondo viene colpito un po’ ingenuamente dalla notizia che Duolingo adotterà un approccio “AI-First” e che cesserà gradualmente di avvalersi di collaboratori esterni per svolgere lavori che l’intelligenza artificiale può gestire. Per un’app linguistica è un passaggio del tutto prevedibile, ma riporta in auge lo spauracchio dell’AI che ruba il lavoro.

A cambiare la prospettiva ci pensano però i risultati di un esperimento della Carnegie Mellon University di qualche tempo fa, basato sulla simulazione di un’azienda fittizia popolata esclusivamente da agenti AI. I dipendenti artificiali hanno portato a termine meno di un quarto dei compiti assegnati, con picchi negativi al 10%: forse le AI, dunque, non ci ruberanno il lavoro a breve.

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In un clima così indefinito, è fondamentale farsi trovare preparati. Ecco perché in USA Donald Trump firma un ordine esecutivo che introduce l’obbligo di insegnamento dell’intelligenza artificiale in tutte le scuole primarie e secondarie americane. E contestualmente, IBM annuncia un investimento da 150 miliardi di dollari in cinque anni negli Stati Uniti, di cui oltre 30 miliardi destinati allo sviluppo di mainframe e computer quantistici.

È a questo punto che Trump torna a usare i chip AI come arma politica. Attualmente, la vendita di questi chip americani (soprattutto NVIDIA) è regolata da un sistema a fasce: alcuni paesi possono acquistare liberamente, altri subiscono limitazioni e altri ancora divieti. Ora l’ex presidente propone di eliminare queste fasce, decidendo caso per caso in base alle relazioni bilaterali, per usare i processori come valuta di scambio a seconda delle circostanze. Il messaggio sembra rivolto non tanto a chi è già colpito da restrizioni (su tutte la Cina), ma all’Europa, finora lasciata libera.

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In Cina intanto, nemico numero uno dell’America trumpiana, un significativo sviluppo promette di inaugurare una nuova fase. Huawei lancia il chip AI Ascend 910C, con l’ambizione di sfidare il dominio di NVIDIA. Se riuscisse a competere davvero con i colossi americani, si tratterebbe di una svolta storica: oggi l’AI cinese si regge in parte su traffici illegali di chip vietati, sempre più complicati da gestire dopo i nuovi controlli seguiti al caso DeeSeek. Se la Cina dovesse riuscire a puntare tutto sui propri chip interni il suo vantaggio potrebbe farsi davvero ampio.

E anche il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, ammette che la Cina non è affatto indietro nell’AI. Eppure il mondo americano e quello cinese, nonostante le tensioni, rimangono meno divisi di quello che si possa pensare.

A confermarlo, il caso Manus: la startup cinese ottiene un finanziamento di 75 milioni di dollari (balzando ad una valutazione di 500 milioni) grazie ad una cordata guidata da un attore di grande spicco: l’americanissima società di venture capital Benchmark.



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