“L’AI Act è assurdo. L’hanno scritto persone tecnologicamente analfabete”, intervista ad Alec Ross | AI Talks #19

Tra USA ed Europa c'è una netta differenza culturale. Ne parliamo con Alec Ross, ex consigliere per l’Innovazione nell'amministrazione Obama.
“L’AI Act è assurdo. L’hanno scritto persone tecnologicamente analfabete”, intervista ad Alec Ross | AI Talks #19

Gli USA e la Cina corrono tecnologicamente e si sfidano a suon di lanci sul mercato, mentre l’Europa non sembra riuscire a competere ad armi pari, adottando un approccio più cauto e optando per la regolamentazione e la prevenzione dei rischi. Nel nuovo appuntamento di AI Talks, esploriamo questa netta differenza culturale.

Ne abbiamo parlato con Alec Ross, autore bestseller globale e Distinguished Professor presso la Bologna Business School, Board Partner presso Collective Global e membro dei consigli di amministrazione di aziende nei settori della tecnologia, della manifattura, dei media, dell’educazione, del capitale umano, della salute e della cybersecurity.

Nella sua carriera, ha ricoperto il ruolo di Distinguished Senior Fellow presso la Johns Hopkins University e di Senior Fellow presso la Columbia University School of International & Public Affairs e, durante l’amministrazione Obama, è stato Consigliere per l’Innovazione del Segretario di Stato, Hillary Clinton, un incarico creato appositamente per lui al fine di modernizzare la pratica della diplomazia e portare soluzioni innovative per promuovere gli interessi di politica estera degli Stati Uniti.

Alec ha anche svolto il ruolo di Coordinatore per il Comitato di Politica Tecnologica e dei Media nella campagna presidenziale di Barack Obama nel 2008 e ha fatto parte del team di transizione presidenziale Obama-Biden.

Con lui, siamo entrati subito nel vivo della questione.

Alec, perché l’Italia e l’Europa non riescono a competere nel tech e in campo AI? Cosa ci manca?

L’Italia e l’Europa continuano a commettere gli stessi errori da trent’anni. Il primo riguarda la cultura e il modo di pensare. Come ho detto più volte – e come ormai cita regolarmente anche Giorgia Meloni – America innovates, China replicates, Europe regulates.

In Europa ci sono talenti straordinari, ma prima ancora che qualcosa venga costruito, si forma un esercito di burocrati, avvocati, politici e notai pronti a creare un quadro normativo che rende estremamente difficile essere imprenditori. Fare impresa in Italia è come correre una maratona con uno zaino pieno di pietre. In altri Paesi questo zaino non lo indossano, ma noi ci siamo talmente abituati da non sentirne più il peso anche se continua a rallentarci.

Molti sottolineano i problemi strutturali: la mancanza di un mercato unico dei capitali, la fiscalità del venture capital, le leggi sul lavoro e così via. Tutti elementi validi, ma il problema principale resta l’eccesso di burocrazia e di regolamentazione.

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Qual è la differenza di mentalità tra USA e Italia/Europa?

La mentalità americana è la mentalità del cowboy. È intrinsecamente imprenditoriale. Sorridiamo di fronte al rischio e non ci lasciamo paralizzare dalla paura.

In Europa, e in particolare in Italia, il talento è pari – se non superiore – a quello degli Stati Uniti. Ma la mentalità è molto più prudente e timorosa, costruita per minimizzare il rischio. Questo non favorisce l’imprenditorialità.

I grandi imprenditori tecnologici americani non avrebbero mai ottenuto incontri a Milano con investitori quando stavano iniziando le loro aziende, figuriamoci ricevere capitali. Li avremmo guardati, ventenni senza l’abito giusto e senza raccomandazione, e li avremmo liquidati.

Negli Stati Uniti, a nessuno importa chi siano i tuoi genitori, che vestiti indossi o se ciò che stai tentando di fare rischia di fallire; conta solo che, se avrà successo, genererà un enorme valore.

La cultura americana è la cultura del cowboy. Troppo spesso, la cultura d’impresa italiana è la cultura del notaio.

Cosa possiamo fare per migliorare la situazione?

Ci sono almeno venti interventi che potrei suggerire, ma inizierei dal livello individuale. In inglese esiste una parola che non ha un vero equivalente in italiano: “agency”. Significa senso di autodeterminazione, la convinzione che ciascuno possa incidere concretamente per migliorare le cose.

Troppo spesso in Europa ci rivolgiamo ai governi aspettandoci che risolvano ogni problema. Ma se aspettiamo che Bruxelles o Roma risolvano tutto, possiamo metterci comodi: aspetteremo a lungo. Le vere soluzioni nascono da atti individuali di coraggio e fiducia. Da una maggiore disponibilità ad assumerci rischi, nelle nostre vite professionali e come investitori.

Significa smettere di pensare a ciò che può andare storto e iniziare a pensare a ciò che può andare bene. So di insistere molto sugli aspetti culturali più che su quelli strutturali o sistemici, ma tutto parte dalla cultura.

Quali opportunità intravedi per il prossimo futuro?

Il mondo cambierà di più nei prossimi dieci anni di quanto non sia cambiato negli ultimi trenta. Vedremo progressi straordinari in molti settori dalla manifattura alla logistica, dall’agroalimentare alle scienze della vita. Le opportunità saranno enormi e verranno creati trilioni di euro di valore.

La vera domanda è: dove sarà creato questo valore, e chi ne beneficerà? I principali beneficiari non dovrebbero essere solo i miliardari americani, ma le persone di tutto il mondo che potranno trarre vantaggio non solo da innovazioni che ci permetteranno di vivere più a lungo, in modo più sano e felice, ma anche dal valore economico che esse generano.

Parte del motivo per cui insisto tanto sulla necessità di togliere lo zaino di sassi dalle spalle degli imprenditori europei è proprio questo: dobbiamo poter immaginare, inventare e commercializzare il futuro anche qui in Europa. Mi irrita profondamente sentire burocrati e politici parlare di “proteggere i valori europei” come giustificazione per un eccesso di regolamentazione.

Se davvero vogliamo proteggere e promuovere i valori europei, allora dobbiamo sostenere innovazioni create in Europa, da europei, e che portino beneficio agli investitori europei. Le opportunità sono molte; la domanda aperta è chi ne trarrà davvero vantaggio. Ciò che stanno facendo questi burocrati è garantire che a vincere saranno gli americani e i cinesi.

La regolamentazione, come l’AI Act e la normativa interna, blocca il progresso? Se sì, come si possono bilanciare le regole con la libertà di innovare?

Ho letto ogni parola dell’AI Act europeo, ed è una delle leggi più assurde mai scritte. È stata redatta da persone tecnologicamente analfabete, più preoccupate dell’apparenza che della sostanza.

Per esempio, l’idea di regolamentare i dati in base alla dimensione dei parametri non ha alcun senso. Il modo in cui vogliono separare e stratificare i dati applicando livelli diversi di regolamentazione è intellettualmente incoerente. Faccio parte di diversi consigli di amministrazione di aziende italiane che non hanno nulla a che fare con i diritti umani o la privacy, eppure siamo sommersi da montagne di scartoffie, burocrazia e compliance inutile a causa di questo AI Act mal concepito.

Quando si parla di bilanciare le regole con la libertà di innovare, bisogna partire da un principio semplice: non dobbiamo creare “soluzioni in cerca di problemi”. Io credo nel valore delle regole ma le regole devono esistere dove esistono i problemi.

In secondo luogo, servono persone più competenti sul piano tecnologico nella stesura di queste politiche. Il novantacinque per cento delle persone che incontro a livello europeo che scrivono queste regole non sanno di cosa parlano. Ho lavorato per sei anni sulla politica tecnologica per Barack Obama e mi sono immerso nella complessità di questi temi. Ciò che mi è chiarissimo è che gran parte della regolamentazione scritta oggi a Bruxelles è opera di persone con una mentalità da attivisti, impegnate in una politica teatrale per apparire “più progressiste” delle altre.

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Negli USA, invece, si nota un cambio di tendenza. In passato, i leader tech statunitensi evitavano di entrare in contatto con la politica. Recentemente, le cose stanno andando diversamente: si assiste a un avvicinamento al Governo. Cosa pensi di queste dinamiche?

I leader tecnologici hanno sempre avuto rapporti con i governi, ma recentemente questi rapporti sono diventati più aggressivi, perché stanno cercando di conquistare quanto più potere possibile. È evidente che, con l’attuale amministrazione americana, offrendo attenzione e donazioni alle cause preferite del presidente, le aziende ottengono trattamenti di favore sia in termini di regolamentazione sia di investimenti.

La decisione del governo americano di adottare una politica industriale più centralizzata, ma realizzandola attraverso il settore privato, produce vantaggi notevoli per l’industria nazionale. In definitiva, i leader tecnologici si stanno avvicinando al potere politico perché ciò risponde al loro interesse economico, anche quando i loro valori sociali divergono.

Non lo dico per giudicare se sia un bene o un male, ma come una fredda, oggettiva analisi della realtà.

La differenza qui è che governo e imprese lavorano insieme in modo molto collaborativo. In Cina lo fanno ancora di più e la distinzione tra il mondo degli affari e quello del governo è una distinzione priva di significato. Purtroppo, in Europa la distanza tra il mondo delle imprese e quello della politica è troppo grande. Troppo spesso, chi lavora nelle istituzioni vede chi lavora nel settore privato non come una risorsa positiva che contribuisce al benessere economico e all’occupazione del Paese, ma come un capitalista avido che cerca di sfruttare i sistemi economici.

Io scelgo di avere più fiducia nelle persone e scelgo di avere più fiducia nelle imprese. Abbiamo bisogno di regole, ma di regole che liberino investimenti e innovazione, così che invece di essere colonizzata dagli americani e dai cinesi, l’Europa possa essere forte nei prossimi trent’anni, più forte di quanto lo sia stata negli ultimi trenta.


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