“Brain rot”, tradotto letteralmente dall’inglese come “marciume celebrale”, è un termine che ultimamente è diventato molto popolare nelle tendenze social. Descrive un presunto deterioramento cognitivo innescato dal consumo prolungato e ripetuto nel tempo di contenuti online di bassa qualità che, secondo i ricercatori, esporrebbe il cervello umano ad uno stato di sospensione cognitiva che col tempo può indurre un calo della capacità di concentrazione e del pensiero critico.
Nel 2024 l’Oxford University Press ha classificato il termine “brain rot” come parola dell’anno, circa sei mesi prima che gli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) pubblicassero uno studio molto discusso che da lì a poco sarebbe diventato uno dei punti di riferimento per l’approfondimento dei fenomeni cognitivi legati all’AI. I ricercatori hanno trovato una relazione significativa fra l’uso di AI e una riduzione dell’attività cerebrale, analizzando le capacità di scrittura di alcuni individui che si sono affidati e all’AI e altri che non l’hanno fatto. Allo studio del MIT se ne sono aggiunti altri che, in una certa misura, hanno sempre portato alle stesse conclusioni, ovvero che esiste un legame fra l’uso di AI e un ridimensionamento temporaneo e parziale delle capacità cognitive.
Come ricostruisce il New York Times, è il caso dello studio condotto dalla professoressa della Wharton School dell’Università della Pennsylvania Shiri Melumad. In questo caso, ad un gruppo di 250 persone è stato assegnato un semplice compito di scrittura diversificando fra coloro che potevano affidarsi alle ricerche Google per le fonti e altri a riassunti generati da AI. I risultati sono stati sorprendenti e hanno evidenziato prestazioni nettamente minori in coloro che si sono affidati all’AI. In particolare chi si è potuto affidare a Google ha prodotto pensieri sintetici, articolati e più completi, mentre chi ha usato l’AI è stato in grado solo di produrre contenuti superficiali e molto generici.
Nel commentare i risultati ottenuti, Melumad ha precisato che il nesso causale fra l’uso di AI e l’indebolimento delle prestazioni di scrittura sta nel fatto che gli strumenti di AI trasformano indirettamente quello che è un processo cognitivo attivo, cioè la ricerca di collegamenti utili e l’individuazione di passaggi salienti nelle fonti, in processi passivi e automatizzati, generando un possibile debito cognitivo nei soggetti interessati.
Secondo Malumad la chiave per evitare che l’uso di chatbot declassi le capacità umane nel lungo periodo è la consapevolezza. Un uso consapevole di AI può essere l’elemento in grado di rendere questa tecnologia un valore aggiunto a disposizione degli esseri umani senza generare retrocessioni culturali e cognitive.
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