Negli ultimi giorni abbiamo assistito a due blackout gravi e ravvicinati che hanno colpito Internet su scala globale e nazionale. Uno è dipeso da un blocco di Amazon Web Services, che ha paralizzato metà dei servizi del web mondiale per diverse ore. L’altro, a distanza di pochi giorni in Italia, è stato causato da un problema di Fastweb, che ha completamente fermato la sua connessione nazionale per mezza giornata.
Ѐ emerso che entrambi i blocchi sono dipesi dallo stesso bug: un errore nella risoluzione DNS. Una coincidenza troppo ingombrante che va inquadrata collocandola nel periodo storico che la tecnologia sta vivendo.
Buchi nel cloud e “Slow-web”
Il blackout di Amazon Web Services ha messo in ginocchio parte di Internet il 20 ottobre 2025, bloccando per ore servizi globali come Fortnite, Canva, Zoom e Alexa.
Secondo i report tecnici ufficiali, la causa sarebbe stata un errore nella risoluzione DNS legato a un endpoint del servizio DynamoDB nella regione statunitense US-EAST-1, una delle più critiche per l’infrastruttura cloud di Amazon.
Pochi giorni dopo, numerosi utenti italiani hanno segnalato problemi di connettività e accesso a servizi online tramite Fastweb, fino ad un blocco totale. Sebbene l’azienda sia un ISP e non un host diretto di siti web, le interruzioni hanno contribuito a creare un effetto domino sulla rete.
Anche in questo caso si è trattato di “un problema di risoluzione DNS“, anche se l’azienda non ha svelato molto di più. Si sa solo che sono state necessarie diverse ore prima di riprendere il servizio. Nelle stesse ore si sono segnalati cedimenti anche di altre reti: Vodafone (ovviamente in quanto parte della stessa Fastweb), ma anche anche WINDTRE e iliad e TIM.
Inciampi nella corsa
Alcuni osservatori stanno ipotizzando che questi inciampi possano essere il frutto della corsa all’adozione dell’intelligenza artificiale nel tech. Le nuove tecnologia stanno trasformando la gestione delle infrastrutture e l’organizzazione di processi e risorse aziendali, lasciando indietro però dei pezzi importanti.
L’incidente di Amazon arriva a pochi mesi da una serie di licenziamenti interni ad AWS in vista dell’introduzione su larga scala di strumenti per automatizzare parte delle operazioni tecniche (pochi giorni dopo il blackout, è circolata la notizia che l’intenzione di Amazon è quella di sostituire mezzo milioni di persone con robot entro il 2033).
Il portale Futurism ha collegato i due eventi, ipotizzando che i tagli — e la conseguente perdita di esperienza umana — abbiano contribuito sia all’origine del problema sia alla lentezza con cui AWS ha gestito l’emergenza. Una tesi rilanciata anche da The Register, che parla di “brain drain”, la fuga di ingegneri senior con conoscenze chiave dei sistemi interni.
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Riguardo a Fastweb, non sono noti allontanamenti in massa di personale umano per far largo all’automazione, ma si sa che l’azienda è una delle più attive nella transizione generativa.
Fastweb sta investendo significativamente nell’AI con l’obiettivo dichiarato di posizionarsi come leader nell’innovazione tecnologica in Italia. Principali iniziative in questo ambito sono la creazione del NeXXt AI Factory, il primo supercomputer NVIDIA DGX SuperPOD operativo Italia (a Bergamo), e lo sviluppo di un modello linguistico italiano di nome MIIA (Modello Intelligenza Artificiale Italiano). Inoltre, l’azienda ha lanciato ecosistemi come la Fastweb AI Suite, piattaforma di servizi e strumenti basati su AI generativa.
Il passo più lungo della gamba
Amazon e Fastweb condividono un processo aziendale in corso: la veloce riallocazione delle risorse verso un settore emergente e estremamente costoso. Il risultato logico è probabilmente che alcune aree operative di queste grandi compagnie somigliano ad alberi con basi prive di corteccia, rimossa e accumulata altrove.
La crescente adozione di AI per supportare operazioni critiche riduce il ruolo umano nella supervisione e nella risoluzione immediata dei problemi. E concentrare in massa molte risorse energetiche, umane ed economiche in una transizione significa indebolire processi già rodati.
Il sospetto è che nel passaggio tra le tecnologie tradizionali a nuove necessità generative, alcune big company non riescano a garantire tutta la stabilità computazionale e infrastrutturale necessaria. Il più classico passo più lungo della gamba, obbligato però da un mercato in fermento. Un mercato che scommette sulla tenuta di infrastrutture digitali in realtà ancora fragili, che sorreggono la nostra economia in un mondo sempre più dipendente da sistemi automatizzati.
E con l’espansione del cloud computing e il continuo incremento del carico su infrastrutture digitali, il margine di errore o di vulnerabilità aumenta. Perché aumentano manutenzioni, aggiornamenti e cambi di configurazione tipici di una rivoluzione industriale.
Fondi e risorse computazionali dirottati sull’AI, passaggio all’automazione, sostituzione di presenza umana con tecnologia generativa: tutto contribuisce a plasmare nuova configurazione operativa creando però parziale incertezza.
I due blackout recenti sono forse lì a ricordarci che il passaggio verso le nuove esigenze generative richiede di convivere con un po’ di disordine controllato e i possibili disagi che ne derivano.
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