La sesta puntata di AI Talks, il format di interviste di AI news alla scoperta dell’intelligenza artificiale, è con Gianluca Maruzzella, Co-fondatore e CEO di indigo.ai – piattaforma SaaS B2B che usa l’intelligenza artificiale per migliorare la comunicazione tra aziende e utenti.
Laureato in ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, con 10 anni di esperienza internazionale in Intelligenza Artificiale, Marketing e User Experience, nel 2021 Maruzzella è stato nominato da Forbes tra i migliori 100 under 30 per la categoria New Enterprise Technologies. È docente di Innovazione e Imprenditorialità presso la IULM.
Abbiamo parlato insieme a lui del mondo delle AI personalizzate, del loro sviluppo e del nostro futuro in convivenza con la tecnologia generativa.
“Democratizzazione dell’AI” è un’espressione che torna sempre più spesso associata all’uso dell’AI nelle attività produttive, cosa si intende di preciso quando parliamo di questo?
Posso parlare dal punto di vista di chi lavora con le aziende. Prima l’uso di tecnologie come l’AI era appannaggio di grossi gruppi, che avevano la possibilità di sviluppare progetti impiegando risorse dedicate. Oggi questo tipo di tecnologia può raggiungere anche aziende piccole e medie entrando nei loro processi produttivi.
Non è più un tema di dimensione, è un tema di attenzione e di volontà. Per la prima volta tutte le aziende, anche le più piccole, possono partecipare a questa corsa avendo la possibilità di competere alla pari.
Oggi ci sono anche molti grandi gruppi, penso a Microsoft o al gruppo Meta, che iniziano a proporre tool direttamente alle aziende. Anche loro perseguono questo modello?
Sì ma in modo diverso. Attori come OpenAI o il gruppo Meta creano i propri modelli. Le aziende, prima di utilizzare questi modelli per i processi interni, devono personificarli e renderli fruibili, ognuno ovviamente con la propria specificità. ChatGPT è esploso lo scorso ottobre, non è nemmeno tanto tempo ma sembra già passata un’era geologica. Il suo arrivo ha aumentato la consapevolezza in tutte le aziende, è stato uno strumento così potente da portare l’attenzione sul tema in pochissimi giorni già a milioni di persone.
Per quanto sia un modello impressionante, ChatGPT da solo non può accedere ai dati di una singola azienda. È uno strumento potente, ma senza controllo diventa inutile.
Nel controllare e adattare queste AI, come bisognerà porsi per risolvere quelle che Sam Altman chiama le allucinazioni, ossia le imprecisioni, secondo lui definibili più caratteristiche che difetti?
Le allucinazioni non sono errori ma dipendono dal funzionamento delle AI. Come sappiamo l’obiettivo dei modelli è quello di generare contenuti emulando il linguaggio umano, che è una delle nostre principali proprietà. Le AI devono produrre delle risposte, ma talvolta in mancanza di dati sono costrette a inventare passaggi che non sono veri, magari solo verosimili.
Per le aziende le allucinazioni sono un grande rischio. Mettiamo il caso che un’azienda metta un’AI a parlare con i suoi clienti ma poi questa sbagli e parli di un competitor: sarebbe gravissimo. Ecco perché ChatGPT è stato usato da molte società fino a questo momento principalmente come tool interno di produttività, magari per scrivere mail, presentazioni o contenuti finalizzati.
Alle allucinazioni si risponde con un processo che chiamiamo ipercontrollo. Senza entrare in tecnicismi, è un po’ come se ci fosse un controllore dell’AI che a sua volta è un’intelligenza artificiale.
Al di là del mondo aziendale, è interessante la prospettiva che questa democratizzazione dell’AI possa andare nella direzione di accompagnare i privati.
È possibile un futuro in cui le singole persone potranno crearsi la propria intelligenza artificiale e in qualche modo permettere al modello di seguire la propria crescita personale, a metà tra un’assistente e una sorta di Angelo custode?
Certo, lo vedo possibile. Ovviamente dobbiamo però iniziare al più presto a porci tutte le questioni legate all’etica e alla privacy. Uno dei grandi filoni che contribuirà a questo tipo di visione è quello della wearable AI (l’intelligenza artificiale indossabile, l’applicazione di algoritmi AI a dispositivi indossabili, come smartwatch, braccialetti fitness o occhiali smart, ndr). Si andrà sempre più nella direzione di affidare i dati personali ad un insieme di device AI che ci accompagneranno. Di conseguenza dobbiamo scegliere e controllare noi quale sarà il grado di condivisione che vogliamo avere con le AI perché non fatico a immaginare un futuro nel quale le AI diventeranno super intelligenti, o meglio più intelligenti dell’intelligenza a cui siamo abituati.
Dal mio punto di vista l’AI può essere l’ultima invenzione dell’essere umano, perché ad un certo punto sarà l’AI a poter creare delle cose per noi.
E credo che dovranno anche ritrovarsi a gestire il proprio tempo libero. Bisognerà pensare all’industria dell’intrattenimento per le AI: è una cosa che reputo realmente possibile.
Un’AI vista nell’ottica di condivisione dei dati è forse un’evoluzione estremizzata di quello che già succede con i social network. Riversiamo per anni tutte le informazioni che ci riguardano dentro i server, è come se nutrissimo già un’entità, che per ora non può parlare ma che inizierà a farlo.
Sì ed è una cosa che certamente un po’ mi preoccupa, tutte le informazioni condivise nel corso del tempo devono essere utilizzate e maneggiate nella maniera più corretta possibile. In futuro ovviamente non possiamo mai sapere quali possono essere le conseguenze della circolazione dei dati, soprattutto nei contesti degli equilibri geopolitici. Nel nostro podcast (Talk Magic, creato da indigo.ai in collaborazione con il podcaster e autore Mario Moroni, ndr), abbiamo affrontato diverse volte questi temi.
Sviluppare queste tematiche si riflette nel lavoro sul campo a contatto con le aziende?
Sì l’obiettivo è quello di aumentare la consapevolezza di questo tipo di tecnologie, perché più siamo consapevoli, bravi e preparati, più riusciremo ad ottenere vantaggio da questo tipo di tecnologie. Stiamo parlando letteralmente del futuro della nostra specie e talvolta ce ne dimentichiamo; siamo di fronte a una tecnologia trasformativa che avrà un impatto clamoroso sul nostro futuro cambiando qualsiasi cosa. È fondamentale prendere le scelte giuste e il momento per farlo è adesso.
Si dice che questo è il periodo del secolo più importante della nostra storia: un’epoca piena sia di opportunità che di pericoli.
Tornando alle aziende italiane, quanto la conoscenza a tema intelligenza artificiale oggi è diffusa tra le PMI? Quanto è falsata?
Le PMI sono quelle che hanno più “fame” da questo punto di vista, da quando è arrivato ChatGPT. Il Covid ha aperto una strada sancendo l’esplosione delle esperienze online e tutti si sono dovuti adattare; adesso la sensibilità tecnologica è in grande crescita.
Secondo l’Osservatorio del Politecnico c’è una crescita importante nell’adozione dell’intelligenza artificiale. Dal mio punto di vista la consapevolezza e l’attenzione ci sono; a mancare adesso sono forse ancora un po’ le competenze ma molto sta cambiando anche in quel frangente. Ad esempio, pur essendo difficile trovare data scientist, oggi anche un operatore che non ha necessariamente una specializzazione sul tema può assumere quel ruolo.
Dal mio punto di vista questa mancanza di competenze non è un tema italiano, è legato in generale alla velocità incredibile con cui si muove oggi tutto il sistema. Un esempio esplicativo: il concetto di seniority non ha più senso da questo punto di vista, perché le tecnologie attuali sono completamente diverse da quelle di qualche anno fa e non è detto che l’esperienza faccia la differenza. La velocità sta completamente cambiando quindi anche il tema dello spettro delle competenze.
A fronte di questo c’è anche qualcuno intimorito all’interno delle aziende?
Qualcuno che rispetto alla propria cultura aziendale è più avverso al tema della tecnologia c’è sempre, ma in generale, per quello che vediamo, ci sono sempre meno manager di azienda che si dimostrano scettici su questo tipo di tecnologia; sono molto fiducioso per il futuro.
Sempre parlando di consapevolezza diffusa, secondo te come i media italiani oggi raccontano l’intelligenza artificiale?
Si apre un capitolo enorme e in realtà secondo me il tema non è tanto nella narrativa. Ci sono giornalisti che sono più o meno avvezzi a questo tipo di tecnologia, più o meno consapevoli o formati e ognuno di loro ha la propria specificità. È normale che i livelli di narrativa siano diversi, anche perché non bisogna essere troppo tecnici nel raccontare l’AI, ma divulgativi.
Il vero problema del mondo editoriale nel trattare questi temi secondo me è sempre lo stesso, ossia il funzionamento del modello di business. Funzionano molto bene le narrative più nazionalpopolari, più pop, perché raggiungono le persone con più facilità. Bisognerebbe ripensare prima di tutto questi meccanismi. La qualità in questo senso può molto migliorare: magari anche l’AI stessa ci può aiutare.
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